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Maggio 16, 2020

Hai un parlamento interiore, ma non sai di averlo!

Potrebbe esserti capitato di chiederti su che basi il cervello umano opera delle scelte, qual è il motivo che ci porta alle conclusioni dei ragionamenti o al prediligere A rispetto a B nella vita di tutti i giorni. Si potrebbe aprire un vaso di Pandora su questo tema, andando a toccare discipline molto differenti tra loro. Mi preme sottolineare che se in questo blog si è già parlato di bias cognitivi, questi non sono risposta alla domanda bensì eccezione: le basi vanno ricercate un po’ nel filosofo Søren Kierkegaard, un po’ nel criminologo Lonnie Athens.

LA SCELTA IN FILOSOFIA

Fin da piccoli siamo messi di fronte alla necessità di operare delle scelte, che poi avranno conseguenze e ripercussioni nel corso della nostra esistenza. In un mondo fatto d’incertezze e infinite possibilità cerchiamo di aggrapparci alla sicurezza ed alla stabilità, ognuno a modo proprio: ecco perché nessuno può fornirci la giusta strada da seguire, ma al massimo indicarcela.

Per Aristotele la scelta è un mezzo per realizzare il bene. Abbiamo già parlato in questo blog di scelte razionali. Per Heidegger è una condizione esistenziale che coinvolge tutti. Ma se c’è un vero e proprio padre dell’esistenzialismo quello è il danese Kierkegaard: sintetizzando molto il suo pensiero, riteneva l’esistenza umana perennemente in bilico tra angoscia e libero arbitrio. E’ proprio dell’esperienza personale che il filosofo nutre i suoi ragionamenti, come nel caso del fidanzamento con Regine Olsen nel 1840 e dei ripensamenti in merito al doversi sposare (riconosceva la sua vocazione per la filosofia come incompatibile ed inadatta alla vita di coppia).

“Sposati, te ne pentirai; non sposarti, te ne pentirai anche; o che ti sposi o che non ti sposi, ti penti d’entrambe le cose… Questa, miei signori, è la somma della scienza della vita!”

Ci illudiamo di poter dominare la scelta. Al contrario, tuttavia, viviamo questo dover scegliere con terrore ed apprensione. Adamo disubbidisce al suo creatore: questa allegoria biblica esprime un uomo prodotto del proprio giudizio, un uomo che al giorno d’oggi vede la libertà come unico mezzo per evitare l’omologazione cui la società di massa ci sottopone ma che, inevitabilmente, si traduce in dramma interiore. Il quesito si riduce ad un “aut-aut” tra la scelta di una possibilità, tra le milioni disponibili, e l’immobilismo provocato da questo stato di indecisione.

Kierkegaard usò la figura del Don Giovanni ed il gioco della seduzione per rende l’idea di questo. Distingueva la purezza e l’immediatezza dell’estetica da un corteggiamento etico e psichico, lento per la necessità di attuare un elaborato piano atto a soggiogare una donna psichicamente prima che fisicamente. Nel farlo il Don Giovanni si mostrava al soggetto del suo desiderio prima distaccato poi estremamente presente, talvolta rabbioso e a volte dolcissimo. Creava un continuo interesse e, a relazione compiuta, mollava la preda con stile:

“introdursi in immagine nell’intimo d’una fanciulla è un’arte, uscirne fuori in immagine è un capolavoro”

Peccato che proprio il seduttore rimanesse vittima dei suoi stessi conflitti interiori. Epilogo che richiama quanto detto sul pensiero e sulla biografia dell’autore.

LA SCELTA IN CRIMINOLOGIA

Completamente diverso l’approccio di stampo criminologico, che affonda le sue radici nella Scuola sociologica di Chicago. Mead e Blumer, nella prima metà del 1900, realizzarono come la mente dell’individuo sia un prodotto dei processi di interazione sociale, che il “sé” nasce in risposta al modo in cui riteniamo essere giudicati dagli altri e ancora che l’azione sociale è guidata da un processo di significazione (ovvero dal significato, individuale e collettivo, che attribuiamo a cose e persone). Elemento chiave per capire la significazione, ovvero questo guardare il mondo con gli occhi altrui e giudicare, è la necessità che i significati siano condivisi tra due o più interlocutori; la comunicazione, altrimenti, perde di efficacia.

Mead esprime alcuni concetti: l’I, il Me ed il Self. L’I è l’aspetto umano più naturale fatto di impulsi ed istinti, libertà ed iniziativa. Il Me è il role-taking, l’orientare l’azione sulla base delle aspettative di terzi. A primeggiare può essere di volta in volta l’individualismo dell’I o il conformismo del Me, proprio perché il Self è un continuo dialogo tra I e Me. L’uomo viene definito metaforicamente “camaleonte sociale”, in quanto chiamato a piegare la propria scelta in funzione di chi lo circonda. Nella vita di tutti i giorni è possibile toccare con mano questo processo, perché da piccoli viviamo una fase denominata “Play” in cui sperimentiamo vari ruoli ed identità (il bambino che prova ad immaginarsi genitore, lavoratore, etc.), da adulti entriamo nella più complessa fase “Game” che ci porta al confronto con l’altro generalizzato (con il giudizio altrui, che interiorizziamo come Me).

La spiegazione di Athens è quella che trovo personalmente più azzeccata, si discosta leggermente da quanto detto da Mead. Il Self diventa soliloquio, il Me diventa They. La prima critica avviene proprio nei confronti di questo Me/They: per Athens, infatti, esiste un’altra cerchia interiorizzata che non si limita a individui realmente esistenti che ci giudicano ma che include anche soggetti con cui abbiamo stretto legami importanti, o persone a cui ci ispiriamo (per un comunista, Karl Marx è sicuramente tale pur essendo morto). Chiamerà questo gruppo Us o Comunità Fantasma e lo renderà interlocutore privilegiato del soliloquio: ogni decisione che prendiamo non è più confronto tra ciò che vorremmo e le aspettative altrui, quanto piuttosto una votazione istantanea di un piccolo parlamento interiore composto da persone interiorizzate che ci giudicano.

LA DECISIONE GIUSTA

C’è un fil rouge che collega filosofia e criminologia. Amo pensare lo smarrimento psicologico del Don Giovanni, così come l’indecisione di Kierkegaard sul matrimonio, come quello che Athens definisce “dramatic self-change”: se la comunità fantasma si rivela essere inadeguata al raggiungimento di determinati obiettivi di vita, l’individuo la mette in discussione e questo (attraverso varie fasi) porta ad un cambiamento drammatico di sé, ad una sostituzione delle persone del proprio parlamento interiore, a nuovi comportamenti e gruppi sociali.

Lo stallo, la voglia di non scegliere, è semplicemente un voto poco condiviso dalla nostra comunità fantasma.

La decisione azzeccata, quindi, è soggettiva. Per logica più si riescono ad ampliare i propri riferimenti di vita ed i propri contatti (nei limiti del numero di Dunbar), più il giudizio dovrebbe essere ponderato e tendente al giusto. Tornando ad Aristotele, citato in apertura, siamo animali sociali.

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