Bentornati su cossalter.it, il blog che ogni tanto mi ricordo di aggiornare. Per la precisione è passato letteralmente un anno dall’ultimo articolo che mi sono trovato a pubblicare. Fare personal branding nel 2021 non è stata decisamente una delle mie priorità personali o professionali, devo ammetterlo, ma ho tutta l’intenzione di farmi perdonare con un testo di qualità: l’argomento è la “Great Resignation“, nota anche come “Big Quit”.
Cos’è la Great Resignation?
Stando ai dati, la Great Resignation (non tradurrò in italiano perché suonerebbe veramente male) è un fenomeno di crescita del numero di dimissioni spontanee da parte dei lavoratori correlata ad una serie di avvenimenti ed evoluzioni culturali, tra cui sicuramente la pandemia Covid-19 e l’avvento dello smart-working. Questo boom, oltre che essere letto “numeri alla mano” come da grafico di cui sopra, meriterebbe opportuni approfondimenti di natura psicologica e sociologica che, ahimé, ho faticato a rintracciare online.
Negli States, stando al BLS (“US Bureau of Labor Statistics” ), 4 milioni di americani hanno lasciato la propria posizione lavorativa a luglio 2021, con un picco di dimissioni ad aprile che, proseguento per mesi, ha lasciato vacanti 10,9 milioni di posti di lavoro. Giusto per avere un’idea a spanne di come leggere queste cifre, nei 20 anni precedenti a febbraio 2021 mai gli States avevano avuto un tasso di dimissioni mensile superiore al 2,4% della forza lavoro totale, nemmeno durante la Grande Recessione del 2007: oggi oscilla intorno ai 3 punti percentuali (vedasi grafico elaborato da Wikipedia in apertura).
L’Italia non fa eccezione, secondo il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali. Dal 1 aprile al 10 novembre si segna un +23,2% di dimissioni rispetto al 2019, ancor più spettacolare il +85% se si sceglie la finestra aprile-giugno rispetto al 2020. La quota di abbandono volontario sul totale degli occupati per la prima volta dopo anni ha superato il 2%.
In generale, il fenomeno è presente a livello globale: secondo uno studio mondiale di McKinsey il 40% dei lavoratori è intenzionato a cambiare lavoro nei prossimi 4-6 mesi, il 53% dei datori di lavoro ha rilevato un turn-over volontario maggiore e il 64% dei votanti si aspetta il problema continuerà a protrarsi nel tempo. Un fenomeno simile a quello americano ed europeo è presente anche in Cina, classificato sotto il nome di “tang ping”.
Gli studi sulle cause
Prima di arrivare a scrivere questo pezzo, ho voluto filtrare tantissimi articoli “fuffa” che si trovano in rete: purtroppo quando un’argomento genera interesse e visite il numero di scribacchini aumenta in maniera esponenziale portando ad un tragico calo della qualità.
Prendiamo gli studi più significativi. Secondo Bankrate, società finanziaria di New York, la pandemia da coronavirus ha consentito ai lavoratori di ripensare le proprie carriere, le condizioni di lavoro e gli obiettivi a lungo termine. In altri termini, si cercano stipendi più alti, flessibilità, felicità. Proprio la flessibilità è, stando a quanto rilevato, la principale leva che spinge le persone al cambiamento.
Anche Adobe, colosso del software famoso per i suoi prodotti di grafica e video digitale, si è posta qualche domanda sul tema. Ne è emerso che a guidare la Great Resignation sono gli scontenti, principalmente Millennials (inizio anni 80 – fine anni 90) e Generazione Z (nati fino al 2010 circa), spesso senza nemmeno avere altre opportunità a disposizione. Stesso identico risultato dello studio dell’IBV (“IBM Institute for Business Value”), che da i primi dimissionari al 25% ed i secondi al 33% sul totale della loro fascia; secondo questo studio è confermata anche la flessibilità tra le ragioni prevalenti (32%), seguita a ruota dalla volontà di mirare a incarichi più soddisfacenti (27%). Altri elementi ricorrenti, in IBV ma anche nella Employer Brand Research di Randstad, sono la ricerca di un equilibrio tra lavoro e vita privata, l’etica ed i valori del datore di lavoro, le opportunità di apprendimento continuo.
Il parallelo con gli Stati Uniti va preso giustamente con cautela: lì il mercato del lavoro è diverso, il fenomeno è cominciato prima, il tasso di dimissioni è molto più alto che da noi
Francesco Armillei, studio pubblicato su lavoce.info
Come sviluppare la retention del personale
Traiamo un po’ di conclusioni, e parliamo dallo studio McKinsey appena riportato: da un lato i desiderata dei dipendenti che vorrebbero sentirsi apprezzati e valorizzati nell’organizzazione, dai manager e dai team, dall’altro lato i datori di lavoro che credono le dimissioni siano mosse da stipendi bassi, altre proposte lavorative e concorrenti.
Prendiamo come spunti anche quelli elaborati dal Visier Insights Report:
- le dimissioni sono più elevate tra i dipendenti di media carriera (tra i 30 ed i 45 anni);
- le dimissioni sono più elevate nei settori tech e sanità.
Per buone, anche le soluzioni che suggeriscono: quantificare il problema in termini di impatto aziendale e di carichi di lavoro, identificarne le reali cause (e non quelle percepite dai C-Level o dal management), arginare il problema sviluppando soluzioni mirate. Nel processo sicuramente emergeranno criticità, come per esempio l’incapacità di trovare metriche adeguate a dimensionare questi comportamenti umani: alla fine si tratta di creare una cultura aziendale condivisa, non calandola dall’alto ma creandola bottom-up, e di misurare la soddisfazione del dipendente confrontandola nel tempo. E’ un processo di trasformazione che richiede coraggio e sforzi organizzativi, che andrà sicuramente ad incidere sulle politiche di avanzamento dei dipendenti e sui modi di intendere le promozioni, ma che si rende necessario per assecondare il cambio di paradigma che stiamo vivendo come colletività.
IT Manager, System Administrator, Sociologo, Politico a tempo perso. Vicentino, classe 1991.
Questo è il mio blog personale, nel quale cerco di proporre analisi e ragionamenti di attualità nei temi in cui sono più preparato. Scopri di più nel mio curriculum vitae, o mettiti in contatto con me!