Ci tenevo a spendere due parole in questo blog per parlare di Internet, del mondo globalizzato ed interconnesso in cui viviamo, ma soprattutto del braccio di ferro tra il fondatore di Twitter Jack Dorsey ed il Presidente degli Stati Uniti d’America Donald Trump. Quest’ultimo ha infatti firmato un ordine esecutivo di modifica del Communications Decency Act che, se approvato dalla Fcc (Federal Communications Commission, l’organo federale che regola le comunicazioni negli USA), eliminerebbe lo “scudo penale” garantito fino ad oggi ai social network per i contenuti degli utenti.
La premessa è che Trump, a suo modo “censurato” o per meglio dire penalizzato dalla moderazione di Twitter, ha aperto il vaso di Pandora sulla questione della responsabilità degli intermediari digitali. Potrei tranquillamente scrivere un libro su questo tema, perché ci sarebbe materiale a non finire su cui discutere; c’è un’intera branca dell’Informatica Giuridica che affonda le sue radici nel rapporto di responsabilità tra utenti finali ed erogatori del servizio “internet”, e con erogatori prendiamo in esame una categoria di entità molto ampia che spazia dai servizi di hosting, dagli Internet Service Provider che vendono connettività, ai social network che usiamo quotidianamente. In apertura parlavo di un mondo globalizzato proprio perché questo genere di problemi sono comuni a tutte le nazioni e sono regolamentati in maniera frammentata dai vari stati: la legislazione degli Stati Uniti è ben diversa da quella dell’Unione Europea, per intenderci, così come da quella italiana nello specifico.
Non mi soffermerò sugli aspetti prettamente legislativi: non ha senso iniziare a parlare della direttiva 2019/790 sul diritto d’autore nel mercato unico digitale, piuttosto che del D.Lgs. n. 70/2003 in attuazione della direttiva europea sul commercio elettronico. Vorrei dar vita ad un ragionamento che non abbia come perno la giurisprudenza, bensì la cultura e la morale: in un mondo utopicamente perfetto, quale sarebbe il miglior modo di rapportarsi nei confronti del web?
I contenuti che circolano su internet possono essere a tutti gli effetti illeciti, è innegabile. Viene da pensare subito alla pirateria informatica, al file sharing ed alle piattaforme di streaming non autorizzate. Più fresca la notizia della battaglia contro i mulini a vento degli editori italiani che in prima battuta hanno proposto una irrealizzabile “sospensione di Telegram”, che hanno ottenuto la rimozione di vari canali da parte dell’Agcom, che come effetto collaterale hanno portato alla censura della biblioteca di ebook Project Gutenberg, e che in conclusione non hanno ottenuto assolutamente nulla (ancora oggi gli utenti condividono giornali e riviste tramite software di messaggistica, totalmente indisturbati). Eppure ci sono reati ben più gravi perpetrati attraverso la rete come la propaganda terroristica o la pedopornografia. Ancora, guardando alla sfera individuale ed economica, le condotte degli utenti possono portare a illeciti dei dati personali, diffamazioni, cyberbullismo, furti di identità, truffe online, discorsi d’odio d’incitamento alla violenza.
Molte persone sono talmente assuefatte dalle “bolle digitali” nelle quali comunicano, da non rendersi conto che i social network non sono altro che siti web. Chiunque può aprire un proprio sito, e su questa base si era mossa in un primo momento la giurisprudenza associando gli illeciti ai proprietari dei domini/siti. Dagli anni 90 ad oggi si è assistito, tuttavia, al proliferare di “user generated contents”. Se gli utenti producono contenuti e li caricano su un sito di terzi, la responsabilità è dei creators o della piattaforma che eroga il servizio? Per Trump, la risposta è la seconda. Portando all’estremo il pensiero di Trump si potrebbe pensare addirittura la responsabilità sia dell’eventuale società che ospita i server dati (hosting), piuttosto della Telecom di turno che garantisce all’utente la possibilità di accedere al servizio. Mi raccomando, non commentate questo articolo plagiando qualche autore di libri che altrimenti mi denunciano 🙂
L’Art. 27 della Costituzione della Repubblica italiana esordisce ricordandoci che “la responsabilità penale è personale“. Sempre che un reato possa essere ricondotto in maniera inequivocabile ed univoca ad una persona, oserei aggiungere. Mentre nella vita reale è possibile accertare se una condotta criminosa è stata effettivamente portata avanti da uno o più individui, e ve lo dice un laureato in Scienze per l’Investigazione e la Sicurezza, l’avanzare della tecnologia complica questo processo a dismisura. Gli utenti di internet non sono schedati se non in maniera superficiale, attraverso l’utilizzo di identificativi più o meno etichettanti (es. indirizzo IP pubblico, indirizzo MAC della scheda di rete). Internet consente inoltre, a chi è un minimo pratico, di minimizzare la propria “impronta” e di giungere ad uno stato di completo anonimato tramite l’accesso al deep/dark-web e strumenti come TOR e le crypto-valute. Se cade la premessa dell’identificabilità di chi commette un illecito, cade l’applicabilità delle leggi nazionali.
Da informatico so bene come sia tecnicamente impossibile eliminare l’anonimato del web. Gli editori potranno far chiudere qualche decina di canali Telegram, gli utenti continueranno a scambiarsi libri. Le case discografiche potranno far chiudere Napster, gli utenti continueranno ad ascoltare illegalmente musica. I produttori di film potranno far chiudere Megavideo e Megaupload, gli utenti continueranno a procurarsi film in streaming comodamente seduti sul divano di casa. Il miglior modo di approcciare un simile ecosistema è quello di abbracciarlo, un po’ come hanno fatto Youtube, Spotify, Netflix. Idee come quella dell’identificazione obbligatoria delle persone sui social network, chiedo venia se urterò la sensibilità politica di qualche lettore, sono stupide ed inconcludenti. Peggio ancora la schizofrenia di alcuni paesi (Unione Europea inclusa) che preferiscono delegare il potere politico che non sono in grado di gestire direttamente ai social network, nuovi sceriffi 2.0.
Gli hacker e gli appassionati di tech sono abili abbastanza da potersi creare il loro internet senza appoggiarsi a nessun fornitore, di certo non si inginocchieranno di fronte alla gentile richiesta di smetterla di sognare una rete che non sia mera servitù del capitalismo di massa. Essere interconnessi è libertà, nessuno stato o nessun conglomerato mondiale di stati potrà mai regolamentare tutto questo. Un po’ come scrissi nel 2014 sul sito dell’allora Presidente della Camera Laura Boldrini, replicando alla lettera aperta di Confindustria Cultura Italia. Un po’ come nel lontano 1996 il buon John Perry Barlow scrisse in “A Declaration of the Independence of Cyberspace” (qui in inglese, qui in italiano).

IT Manager, System Administrator, Sociologo, Politico a tempo perso. Vicentino, classe 1991.
Questo è il mio blog personale, nel quale cerco di proporre analisi e ragionamenti di attualità nei temi in cui sono più preparato. Scopri di più nel mio curriculum vitae, o mettiti in contatto con me!