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Maggio 26, 2020

Le sanzioni 2.0 dell’era digitale

L’altro giorno qualcuno ha ben pensato di chiedere quale sia il mio pensiero in merito alla situazione del penale e delle carceri in Italia. Di primo impatto ho incardinato una semplice risposta sulla base del populismo penale e della facilità con cui certi politici amano promettere sanzioni abnormi per comportamenti relativamente poco dannosi, ma il ragionamento merita riflessioni ben più approfondite che a voce non è facile trasmettere. Per fortuna ho un blog!

Tra il 390 ed il 360 a.C., scusate questo salto indietro di due millenni ma l’idea è quella di mantenere un ordine quanto più possibile cronologico, Platone scrive “La Repubblica”. All’interno di quest’opera nomina un oggetto magico, l’anello di Gige, che garantiva al proprietario la possibilità di diventare invisibile a comando con un semplice gesto di mano. Il protagonista della storia usò l’anello per sedurre la moglie del re ed uccidere quest’ultimo: epilogo che ci porta ad una morale non facile da digerire ovvero che nessun uomo, nemmeno il più giusto sulla faccia della Terra, è così virtuoso da resistere alla tentazione di compiere atti anche terribili quando non osservato da terzi. La natura onnisciente ed onnipresente delle divinità delle religioni più diffuse, non a caso, ha come obiettivo quello di portare i fedeli a credere di essere sempre osservati e indurli, di conseguenza, a comportarsi correttamente. Nel presente parliamo di “effetto Gige” per riferirci ai troll online, che si lasciano tentare dall’anonimato del web.

Direttamente dall’indice dei libri proibiti della Chiesa cattolica, nel 1764 esce “Dei delitti e delle pene” di Cesare Beccaria. Un tranquillo marchese di Milano, ancora trentenne, confeziona un pamphlet ispirato dalle discussioni in casa Verri sulle deplorevoli condizioni della giustizia italiana. Getta letteralmente le basi per la teoria classica del diritto penale e della criminologia di scuola liberale. Un libro che osava addirittura distinguere tra peccato e reato, provocando la messa al bando da parte del Vaticano, nel quale l’autore prendeva una ferma posizione contro la tortura e la pena di morte. “Se dimostrerò non essere la pena di morte né utile, né necessaria, avrò vinto la causa dell’umanità“, scriveva testualmente. Per Beccaria la sanzione avrebbe dovuto avere come caratteristiche la prontezza temporale, l’infallibilità (ovvero la certezza di applicazione), la proporzionalità con il reato, durata adeguata, pubblica esemplarità, ed essere la “minima delle possibili nelle date circostanze”. Non nego che la rilettura oggi dei suoi scritti sia innegabilmente deprimente, visto lo stato attuale della giustizia italiana.

Non vi è libertà ogni qualvolta le leggi permettono che, in alcuni eventi, l’uomo cessi di essere persona e diventi cosa.

Dei delitti e delle pene

Mancavano ben 26 anni alla rivoluzione francese. Sotto Luigi XVI i bestemmiatori venivano mandati al rogo, le bande di ladri venivano condannate a subire la tortura della “ruota” che spaccava le ossa, i ladri comuni venivano impiccati ed i crimini di lesa maestà venivano puniti con tenaglie, ustioni e squartamento ad opera di quattro cavalli. A modo suo Beccaria influenzò la generazione di intellettuali che rovesciarono la monarchia e diedero vita nel 1789 alla Dichiarazione dei diritti dell’uomo.

Non esiste qualcosa come un tipo di movente che sia in se stesso cattivo” scriveva proprio nel 1789 il filosofo e giurista Jeremy Bentham. Era apparentemente in linea con Beccaria, ma promuoveva un’idea di utilitarismo ed un ideale di giustizia consequenzialistica per cui l’atto deviante dovesse essere giudicato sulla base delle sue conseguenze effettive. Non solo: era convinto che i cittadini, detenuti inclusi, dovessero contribuire alle spese dello Stato in proporzione alle proprie possibilità (strizzando quindi l’occhio alla possibilità di lavorare all’interno delle carceri). Nel 1791 progetta il Panopticon, una struttura destinata ad uso carcerario che avrebbe permesso ad un unico sorvegliante di osservare (opticon) tutti (pan) i detenuti senza che questi potessero capire se in un dato momento fossero sotto controllo o meno.

Il Panopticon troverà applicazione pratica giusto 4 anni dopo con la costruzione del carcere di Santo Stefano. Ormai è una struttura in disuso, non avrebbe nemmeno senso nominarla in un post del genere se non fosse che la stessa durante il ventennio fascista ospitò, tra gli altri, dissidenti politici ben noti: Umberto Terracini, Mauro Scoccimarro, il futuro Presidente della Repubblica Sandro Pertini, ma anche Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi che durante il periodo di confino elaborarono per poi firmare nel 1941 il Manifesto di Ventotene.

La civiltà moderna ha posto come proprio fondamento il principio della libertà, secondo il quale l’uomo non deve essere un mero strumento altrui, ma un autonomo centro di vita.

Manifesto di Ventotene

La seconda metà del 1900 è stata fucina di esempi applicativi delle teorie precedenti. A livello letterario il 1949 vede George Orwell pubblicare un distopico “1984” nel quale la società viene controllata dal Partito grazie alla Psicopolizia, un’organizzazione paramilitare che per mezzo di teleschermi accerta non vengano commessi psicoreati. Nel 1954 escono sugli scaffali le prime edizioni dei volumi de Il Signore degli Anelli, che con l’Unico Anello e Sauron non fa altro che confezionare in chiave fantasy un gioco di potere basato sulla visibilità che ormai conoscete bene. Al di là del giudizio architettonico sul Panopticon, quello che qui si vuole sottolineare è il fattore psicologico di una forma di controllo talmente invisibile da essere interiorizzata; la sostanziale differenza tra l’essere liberi e l’essere prigionieri, come rileverà nel 1975 anche Michel Foucault in “Sorvegliare e punire”, si assottiglia e viene meno. Il corpo stesso viene investito da rapporti di potere, di dominio e il suo costruirsi come forza lavoro (e quindi come utilizzazione economica) è possibile solo se entra a far parte di un sistema di assoggettamento (la società contemporanea).

Nel 1977 lo scrittore Philip K. Dick si pone un quesito esistenziale di vitale importanza, a mio avviso. Chi controlla il controllore? Nel suo romanzo “Un oscuro scrutare” il protagonista è un poliziotto infiltrato nel mondo della droga, talmente segreto che la sua identità è ignota persino ai diretti superiori, al quale verrà ironicamente richiesto di controllare sé stesso. Concetto ripreso nel 1992 da Umberto Eco con la definizione di Anopticon, che capovolge il ruolo del sorvegliante del carcere rendendolo osservato da tutti.

Oggi il panopticon (o meglio, l’anopticon) è la nostra realtà quotidiana. In forma virtuale. Come la vicenda di Snowden e Wikileaks ha dimostrato, la tecnologia ha dato genesi ad un’enorme “vetrinizzazione sociale” (neologismo del sociologo Vanni Codeluppi) nel quale il prezzo da pagare per accedere alle informazioni su qualcuno è cedere informazioni personali ed essere sorvegliati un po’ da chiunque (governi inclusi). Si ricorre a Photoshop ed alla chirurgia plastica per apparire, per non essere giudicati negativamente da questi ignoti. Si alimenta un disagio esistenziale profondo ed una sottile schizofrenia che ci rende impotenti di fronte all’inverificabile ed all’invisibile. In un paese in cui la certezza della pena è utopia, è più deterrente la possibilità di incrinare la propria immagine pubblica di una sanzione economica: se avessimo una “giornata nazionale della gelosia” come in Finlandia, dove ogni anno il governo pubblica l’imponibile di tutti i contribuenti, probabilmente avremmo assestato la spallata del secolo all’evasione fiscale. La battaglia del 2020 è nel controllo dei Big Data e degli algoritmi, che dettano le regole di questo gioco di potere in cui siamo immersi e dal quale, un po’ come in Jumanji, non possiamo uscire.

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