Giorgio Armani si è lasciato andare a dichiarazioni importanti nei giorni scorsi, dichiarazioni che hanno catturato la mia attenzione. Prima di qualsivoglia ragionamento su di esse, vi invito a leggerne gli stralci che seguono o, piuttosto, la lettera integrale che scrive agli americani sul magazine WWD.
Mi congratulo: la riflessione su quanto sia assurdo lo stato attuale delle cose, con la sovrapproduzione di capi e un criminale non allineamento tra stagione meteorologica e stagione commerciale, è coraggiosa e necessaria. Ne condivido ogni punto, solidale con le opinioni espresse dai miei colleghi. Sono anni che sollevo i medesimi interrogativi durante le conferenze stampa successive ai miei show, sovente inascoltato, o ritenuto moralista.
L’emergenza attuale dimostra invece come un rallentamento attento ed intelligente sia la sola via d’uscita. Una strada che finalmente riporterà valore al nostro lavoro e che ne farà percepire l’importanza e il valore veri al pubblico finale. Il declino del sistema moda per come lo conosciamo è iniziato quando il settore del lusso ha adottato le modalità operative del fast fashion, carpendone il ciclo di consegna continua nella speranza di vendere di più, ma dimenticando che il lusso richiede tempo, per essere realizzato e per essere apprezzato. Il lusso non può e non deve essere fast. Non ha senso che una mia giacca o un mio tailleur vivano in negozio per tre settimane prima di diventare obsoleti, sostituiti da merce nuova che non è poi troppo diversa. Io non lavoro così, e trovo immorale farlo.
Chi acquista per mettere in armadio aspettando la stagione giusta? Nessuno o pochi, penso io. Ma questa, spinta dai department store, è diventata la mentalità dominante. Sbagliata, da cambiare.
Questa crisi è anche una meravigliosa opportunità per ridare valore all’autenticità: basta con la moda come puro gioco di comunicazione, basta con le sfilate cruise in giro per il mondo per presentare idee blande e intrattenere con spettacoli grandiosi che oggi ci si rivelano per quel che sono: inappropriati, e se vogliamo anche volgari. Sprechi di denaro che inquinano e sono verniciate di smalto sul nulla. Eventi speciali devono succedere per occasioni speciali, non come routine.
Come potete ben capire, si sta creando dibattito e consenso intorno a questa presa di posizione dello stilista. E’ uno smacco al capitalismo e ai cicli produttivi che fino ad oggi hanno regolato il mondo del fashion, ma soprattutto è un messaggio etico e morale di decrescita. Il coronavirus e la pandemia non sono altro che banali pretesti di questo cambio di paradigma.
Sto iniziando ad usare un linguaggio sociologico, quindi arriviamo subito a Georg Simmel. Nel 1885 usciva infatti il suo saggio “La Moda” nel quale studiava il fenomeno: in esso rileva come questa possa essere osservata nello stile, nel linguaggio, nell’arte ma anche nella cultura e che sia finalizzata a distinguere, escludere, riconoscere ed unire. Alla base di questo processo della Social Identity Theory c’è il bias cognitivo in-group e out-group, che ci porta a differenziare mentalmente chi fa parte della nostra cerchia dal resto della comunità. La moda è imitazione e distinzione, un ossimoro che sembra tale solo a parole ma non a livello pratico e che alimenta questa scelta dei pochi che ci assomigliano piuttosto dei tanti da cui distanziarsi.
Trovo personalmente incoerente la stilettata al capitalismo di cui la lettera è intrisa, quando il mondo dell’abbigliamento si basa sulle classi, sul simbolismo e sulla mobilità sociale. L’alta moda è capitalismo puro, e ne sottostà alle regole. Ci si identifica in un gruppo di appartenenza, si denigrano i gruppi sociali inferiori più poveri e popolosi, si viene ispirati e si ambisce dai gruppi sociali prestigiosi ed elitari. In questo processo la chiave di differenziazione rispetto a chi viene sotto di noi nella gerarchia è la tempistica di accesso a stili innovativi, ricercati, costosi. Al vertice della piramide c’è lui, Giorgio Armani, che (così come tanti suoi colleghi) detiene il potere di trasformare azioni ed oggetti di consumo in simboli e segni che generano, volenti o nolenti, disuguaglianze tra individui. Al fondo della piramide una moda ormai secolarizzata che non si può più definir tale, in quanto equiparata a cultura popolare e svalutata.
Caro Giorgio, due parole te le rivolgo direttamente io. E’ vero, l’era moderna ha provocato profonde trasformazioni nel settore. I processi di industrializzazione si sono enormemente estesi ed accelerati, portando alla sovrapposizione di capi simili ed al disallineamento di stagioni contro cui ti opponi ideologicamente. La moda prima della globalizzazione era un rituale, era un innovare con cadenza lenta, periodica ma costante. C’è della religiosità in tutto questo. Quel che voglio esprimere è che l’avvento delle trasformazioni a cui hai assistito, che vivi ogni giorno e che ritieni “immorali”, fanno parte di una società mutata che purtroppo non tornerà sui suoi passi. Sei sempre stato tu a dettare la linea ma non sei mai stato tu a stabilirne i ritmi, in questo hai assecondato la volontà delle masse e del progresso. Sono sinceramente curioso di vedere dove porterà la tua battaglia, se vinceranno i soldi (come, ahimè, temo) o se vincerà l’essere umani. Buona fortuna!
IT Manager, System Administrator, Sociologo, Politico a tempo perso. Vicentino, classe 1991.
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